martedì 29 novembre 2011

La storia del soldato che riparò il grammofono

I libri non sono generi deperibili. Quando senti che è arrivato il momento di leggere un libro, ecco, quello è il primo istante in cui quel libro esiste. Per questo i libri sono sempre attuali: perché per qualcuno ci sarà sempre il Momento Giusto in cui leggerli.
Mi piace trovare i libri al Momento Giusto: andare in biblioteca, scegliere uno scaffale a caso e iniziare a leggere i titoli, a guardare i dorsi delle copertine, fino a quando un libro non mi chiama. Funziona sempre.
Così ho trovato La storia del soldato che riparò il grammofono di Saša Stanišić.
Non è facile descrivere un libro che scorre oltre gli argini, in cui le parole sono oggetti, immagini e sensazioni così forti da lasciare senza fiato. Un romanzo simile alla Drina, il fiume che attraversa i Balcani, che da sempre ne lambisce le campagne pigre e i villaggi sofferenti, i villaggi pigri e le campagne invase dalla solitudine, raccogliendo di ogni guerra i cadaveri, di ogni ponte gli sguardi dei bambini.
La trama, semplicissima. Alexandar è bambino ai tempi della guerra bosniaca; fuggito con la sua famiglia in Germania, dopo dieci anni di oblio e "integrazione" sente il bisogno di tornare indietro, di completare ricordi lasciati incompiuti, ridando così senso alla propria vita e alle vicende di un'intera comunità, quella di Višegrad, la sua cittadina natale devastata dal genocidio.
Tutto qui. Eppure nel romanzo, di questo, si trova ben poco.
Si trovano le vicende della pace e della guerra: le morti, le partenze e i ritorni, i racconti degli adulti e degli altri bambini, come quello di Asija, pallida e dai capelli di un biondo chiarissimo, sfuggita al massacro di un intero villaggio. Vicende troppo grandi, o forse troppo piccole, per l'interiorità di un bambino come Alexandar, che le deve trasfigurare con la fantasia, grazie alla bacchetta magica e al cappello regalatigli dal nonno Slavko poco prima di morire, per renderle della dimensione giusta.
In un continuo rimando tra reale e immaginario, tra presente e ricordo, tra mondo esteriore e mondo interiore, in lampi di lancinante poesia, la verità su ciò che ne è stato del villaggio e dell'infanzia di Alexandar emerge con impietoso realismo.
Saša Stanišić (Višegrad, 1978), che con la pubblicazione del suo primo romanzo (nel 2007, edito in Italia da Frassinelli) La storia del soldato che riparò il grammofono si è dimostrato uno scrittore già perfettamente formato, è riuscito a trasformare una vicenda umana precisa in un affresco dedicato alla vita dell'essere umano, alle sue minuscole gioie, al rincorrersi delle guerre, al suo essere intreccio indissolubile di bene e male.
Se potessi, continuerei. Ma sarà lui a spiegare cosa c'è di misteriosamente bello in ciò che scrive, e lo farà meglio di me.

"Ogni due minuti si spegne la luce nella tromba delle scale. Per alcuni secondi l'oscurità copre l'attesa. Non abbastanza da poter distinguere le sagome. Subito qualcuno riaccende la luce. Ogni oscurità è una breve scomparsa, una piccola guarigione. In uno di questi secondi scuri Asija sussurra: non dimenticarmi! Il dimenticare mi solletica il lobo dell'orecchio, non so perché lo dica, perché lo dica ora, non so cosa devo risponderle.
La luce torna a vivere, Asija si attorciglia i capelli sul dito, le lacrime hanno disegnato vene sullo sporco delle sue guance.
Quando i tubi al neon si riaccendono - ogni volta un grande strizzar d'occhi, ma nessun risveglio. I soldati non scompaiono, si tolgono gli stivali e si guardano le dita dei piedi. L'attesa non finisce".

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